Quella lettera (inedita) di Padre Bergoglio

Ecco alcuni stralci di una lettera inedita (vedi qui l’originale) di Jorge Mario Bergoglio pubblicata e tradotta da “L’Osservatore Romano“. Il futuro Papa, nel documento datato 1990 e conservato nell’archivio storico salesiano di Buenos Aires, ricorda gli anni del collegio e soprattutto Don Enrique Pozzoli, l’amico di famiglia che lo aveva battezzato e che aveva seguito il suo percorso spirituale.
Cordoba, 20 ottobre 1990

Ho appena terminato la relazione dei miei ricordi su P. Enrique Pozzoli. Ora voglio completare la mia promessa di scriverle alcuni ricordi del mio contatto con i Salesiani, così come eravamo rimasti. E inizio con un aneddoto un po’ volteriano. Nel 1976 trasferimmo la Curia Provinciale a San Miguel. Cominciavano ad arrivare vocazioni nuove e sembrava conveniente che il Provinciale stesse vicino alla Casa di Formazione.

Si tornò a riformare il programma di studi: 2 anni di iuniorato (che erano spariti), la filosofia separata dalla teologia tornò a imporsi, sostituendo quel “miscuglio” di filosofia e teologia che era stata chiamata “curriculum” dove si cominciava studiando Hegel (sic!). Stando a San Miguel vidi i quartieri senza cura pastorale; ciò mi preoccupò e iniziammo a seguire i bambini; il sabato pomeriggio insegnavamo catechismo, poi giocavano, ecc. Mi resi conto che noi Professori avevamo il voto d’insegnare la dottrina a bambini e ignoranti, e cominciai io stesso a farlo insieme agli studenti.

La cosa andò crescendo; si edificarono 5 chiese grandi, si mobilitarono in modo organizzato i bambini della zona… e solamente il sabato pomeriggio e la domenica mattina… Allora venne l’accusa che questo non era un apostolato proprio dei gesuiti; che io avevo salesianizzato (sic!) la formazione. Mi accusano di essere un gesuita pro-salesiano, e forse ciò fa sì che i miei ricordi siano un po’ di parte… ma resto tranquillo perché il mio interlocutore di questo momento è un salesiano pro-gesuita, e lui saprà discernere le cose.

Non è strano che parli con affetto dei Salesiani, perché la mia famiglia si alimentò spiritualmente dei Salesiani di San Carlos. Da bambino imparai ad andare alla processione di Maria Ausiliatrice, e anche a quella di Sant’Antonio della Calle

Papa Bergoglio da bambino

México. Quando stavo a casa di mia nonna andavo all’Oratorio di San Francesco di Sales (a seguirmi lì era l’attuale P. Alberto Della Torre, cappellano dell’aviazione). È naturale che sia tifoso del San Lorenzo (ci mancherebbe altro) e fino a poco tempo fa ho conservato una “Historia del Club San Lorenzo” scritta da P. Mazza (credo): l’ho regalata a Don Hugo Chantada, giornalista cattolico di La Prensa, tifoso accanito del San Lorenzo. Ora ce l’ha lui. Fin da bambino conobbi i famosi Padri confessori di San Carlos: Montaldo, Punto, Carlos Scandroglio, Pozzoli. E fin da bambino tenevo tra le mani la “Instrucción religiosa” di P. Moret. Ci avevano insegnato a chiedere “la benedizione di Maria Ausiliatrice” ogni volta che ci congedavamo da un Salesiano.

La vita di Collegio era un “tutto”. Ci si immergeva in una trama di vita, preparata in modo che non ci fosse tempo ozioso. Il giorno passava come una freccia senza che uno avesse il tempo di annoiarsi. Io mi sentivo sommerso in un mondo che, sebbene preparato “artificialmente” (con risorse pedagogiche), non aveva nulla di artificiale. La cosa più naturale era andare a Messa la mattina, come fare colazione, studiare, andare a lezione, giocare durante la ricreazione, ascoltare la “Buonanotte” del P. Direttore.

A ognuno si facevano vivere diversi aspetti assemblati della vita, e questo creò in me una coscienza: coscienza non solo morale ma anche una specie di coscienza umana (sociale, ludica, artistica, ecc.). Detto in modo diverso: il Collegio creava, attraverso il risvegliarsi della coscienza nella verità delle cose, una cultura cattolica che non era per nulla “bigotta” o “disorientata”.

 Lo studio, i valori sociali di convivenza, i riferimenti sociali ai più bisognosi (ricordo di aver imparato lì a privarmi di alcune cose per darle a persone più povere di me), lo sport, la competenza, la pietà… tutto era reale, e tutto formava abitudini che, nel loro insieme, plasmavano un modo di essere culturale. Si viveva in questo mondo, aperto però alla trascendenza dell’altro mondo. Mi risultò molto facile, poi nella scuola secondaria, fare il “trasferimento” (in senso psicopedagogico) ad altre realtà. E questo semplicemente perché le realtà vissute nel Collegio le avevo vissute bene; senza distorsioni, con realismo, con senso di responsabilità e orizzonte di trascendenza. Questa cultura cattolica è — a mio avviso — il meglio che ho ricevuto a Ramos Mejía.

Tutte le cose si facevano con un senso. Non c’era nulla “senza senso” (almeno nell’ordine fondamentale; perché accidentalmente c’erano gesti d’impazienza di qualche educatore o piccole ingiustizie quotidiane, ecc.). Io imparai lì, quasi inconsapevolmente, a cercare il senso delle cose. Uno dei momenti chiave di questo imparare a cercare il senso delle cose era la “Buonanotte” che generalmente dava il P. Direttore.

A volte lo faceva il P. Ispettore, quando passava per il Collegio. In proposito ricordo ancora, come se fosse oggi, una “Buonanotte” di Mons. Miguel Raspanti che in quel momento era ispettore. Fu all’inizio di ottobre del 49. Era andato a Córdoba perché sua madre era morta il 29 settembre. Al suo ritorno ci parlò della morte.

Ora, a quasi 54 anni, riconosco che quella piccola riflessione serale è il punto di riferimento di tutta la mia vita successiva riguardo al problema della morte. Quella sera, senza provare paura, sentii che un giorno sarei morto, e mi sembrò la cosa più naturale. Quando uno o due anni dopo venni a conoscenza di come era morto P. Isidoro Holowaty, di come aveva sopportato per mortificazione per tanti giorni il dolore alla pancia (lui era infermiere) finché un mercoledì P. Pozzoli, che era andato lì a confessare i salesiani, gli ordinò di vedere il medico, ebbene, quando ne venni a conoscenza, mi sembrò la cosa più naturale che un Salesiano morisse così, esercitando virtù.

Un’altra “Buonanotte” che fece impressione fu una di P. Cantarutti sulla necessità di pregare la Santissima Vergine per capire bene la propria vocazione. Ricordo che quella notte pregai intensamente fino al dormitorio (si dovette notare qualcosa perché due giorni dopo P. Avilés mi buttò lì un commento)… e da quella sera non mi sono mai addormentato senza pregare. Era un momento psicologicamente adatto a dare un senso al giorno, e alle cose.

Nel Collegio imparai a studiare. Le ore di studio, in silenzio, creavano un’abitudine di concentrazione, di dominio della dispersione, abbastanza forte. Sempre con l’aiuto dei professori, ho imparato un metodo di studio, regole mnemotecniche, ecc. Lo sport era un aspetto fondamentale della vita. Si giocava bene e molto. I valori che insegna lo sport (oltre alla salute) già li conosciamo. Nello studio come nello sport aveva una certa importanza la dimensione della competizione: ci insegnavano a competere bene e a competere da cristiani. Con gli anni ho sentito alcune critiche a questo aspetto competitivo della vita… Ma curiosamente le facevano cristiani “liberati” da questo aspetto pedagogico ma che nella vita quotidiana si scannavano tra loro per denaro o per potere… e non competevano da cristiani.

C’era anche posto per gli hobby, lavori artigianali, inquietudini personali. P. es. P. Lambruschini c’insegnava a cantare, con P. Avilés imparai a costruire un macchinario per riprodurre documenti e a usarlo; c’era un Padre ucraino (P. Esteban) e chi voleva imparava a servire la messa in rito ucraino… e così molto altro (teatro, organizzare campionati, atti accademici, tassidermia, ecc.) che canalizzavano hobby e inquietudini. Ci si educava alla creatività.

Dico questo perché verso la fine dello scorso anno mi è successo qualcosa che mi ha rattristato. Un Padre Salesiano, che stimo molto, mi ha detto in una conversazione che stavano pensando di lasciare alcuni Collegi in mano ai laici. Gli ho chiesto se era per mancanza di vocazioni. In parte, mi ha detto, era questa la ragione, perché i giovani salesiani non vogliono lavorare nei Collegi, non si sentono attratti da questo apostolato. Io gli ho detto che accadeva tutto il contrario con i giovani gesuiti: vogliono lavorare nei Collegi… e non sono affatto conservatori.

 C’è di più: negli ultimi 18 anni la Provincia Argentina della Compagnia aveva aperto vari Collegi, usando la forma del Collegio parrocchiale. Mentre io ero Rettore del Máximo, si erano aperti due Collegi nel suo terreno: uno di educazione tecnica e l’altro di educazione dell’adulto. E ora ne è stato appena aperto un terzo proprio lì: primario e secondario. Al padre ho anche detto che più che un problema dei giovani mi sembrava che fosse un problema di come si formavano i giovani… e che vedessero se la mancanza non stesse proprio lì…

Quel Padre mi ha anche detto che un’altra ragione era quella di “fare un gesto di inserimento” (sic!) nei quartieri, e per questo avrebbero lasciato i Collegi, o alcuni di essi. Che era una “opzione” pastorale. Di fronte a questo non ho potuto non pensare ai salesiani che avevo conosciuto in Collegio; non so se “facevano gesti di inserimento”, ma che si sfiancavano tutto il giorno e che non avevano neppure il tempo di fare un riposino, questo sì lo so. Se quegli uomini che avevo conosciuto in Collegio — e con questa riflessione concludo — poterono creare una “cultura cattolica”, fu perché avevano fede.

Credevano in Gesù Cristo e — un po’ per fede e un po’ per faccia tosta — avevano il coraggio di “predicare”: con la parola, con la loro vita, con il loro lavoro. Non si vergognavano di schiaffeggiarci con il linguaggio della croce di Gesù che è vergogna e follia per altri. Mi domando: quando un’opera langue e perde il suo sapore e la sua capacità di far lievitare la pasta, non sarà piuttosto perché Gesù Cristo è stato sostituito da altre opzioni: psicologiste, sociologiste, pastoraliste? Non voglio essere semplicista, ma non smetto di preoccuparmi per il fatto che — per fare gesti radicali d’inserimento sociale — si abbandoni l’adesione a Gesù Cristo vivo e il conseguente inserimento in qualsiasi contesto ambientale, compreso quello educativo, per costruire una cultura cattolica.

2 risposte a “Quella lettera (inedita) di Padre Bergoglio

  1. Che bello ritrovare nelle parole del Papa ciò in cui si crede. Sono una docente di scuola media che ogni giorno fa i conti con adolescenti che provocano circa l’esistenza o meno di Dio. Insegno lettere , spesso , durante l’ora di storia (materia che sento mia) mi infervoro nel sottolineare l’importanza della conoscenza critica dei fatti accaduti in passato per costruire il proprio pensiero in modo libero. Nn nascondo mai il mio credo, sottolineo spesso che sono praticante e questo, in adolescenti ribelli e contornati da molti modelli diversi, provoca reazioni disparate. Ascolto, nn giudico, ma sottolineo l’importanza di sentirsi amati e accettati ed aiutati da qualcuno che li ha voluti fortemente in questo mondo. Eppure nei loro volti vedo “spaesatezza”. Nn so se il mio modo di approcciarmi e’ pedagogico, nn so se sbaglio ad ascoltarli , a guidare i loro passi verso la capacita’ di scegliere la propria strada pensando che il bene debba sempre essere il punto di arrivo delle loro scelte, prima ancora della lezione da studiare, ci deve essere la serenità interiore nel prendere in mano il libro. Bene, nn mi sento capita dai colleghi. Nei Consigli di classe, con il bilancino, si propongono valutazioni Gesù esulano dal se’ e tengono in considerazione solo l’aspetto dei contenuti. Sa

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